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Italia chiama Islanda ?

Nel 2009 tramite referendum gli islandesi hanno sentenziato al 93 % di non voler pagare il debito delle loro banche: si è innescata così una sorta di rivoluzione silenziosa, che ha portato alle dimissioni del governo, alla scrittura di una nuova costituzione nel 2010, e soprattutto, alla nazionalizzazione della maggioranza degli istituti bancari e all’arresto dei banchieri che avevano portato il paese alla bancarotta. Un primo passo in questa direzione potrebbe essere aderire all’appello per il congelamento del debito promosso dal  Centro Nuovo Modello di Sviluppo

                                           link al documento promosso dal CNMS sulla campagna 

Continuano a farci credere che per uscire dal debito dobbiamo accettare manovre lacrime e sangue che ci impoveriscono e demoliscono i nostri diritti. Non è vero. La politica delle manovre sulle spalle dei deboli è voluta dalle autorità monetarie europee come risultato della speculazione. Ma è intollerabile che lo Stato si adegui ai ricatti del mercato: la sovranità appartiene al popolo, non al mercato!

Esiste un’altra via d’uscita dal debito. E’ la via del congelamento e se la condividi ti invitiamo a firmare e a diffondere questo documento, affinché si crei una grande onda che dica basta alle continue manovre che distruggono il tessuto sociale. Il problema del debito va risolto alla radice riducendone la portata. Non è vero che tutto il debito va ripagato, il popolo ha l’obbligo di restituire solo quella parte che è stato utilizzata per il bene comune e solo se sono stati pagati tassi di interesse accettabili. Tutto il resto, dovuto a ruberie, sprechi, corruzione, è illegittimo e immorale, come hanno sempre sostenuto i popoli del Sud del mondo.

Per questo chiediamo un’immediata sospensione del pagamento di interessi e capitale, con contemporanea creazione di un’autorevole commissione d’inchiesta che faccia luce sulla formazione del debito e sulla legittimità di tutte le sue componenti. Le operazioni che dovessero risultare illegittime, per modalità di decisione o per pagamento di tassi di interesse iniqui, saranno denunciate e ripudiate come già è avvenuto in altri paesi.

La sospensione sarà relativa alla parte di debito posseduto dai grandi investitori istituzionali (banche, assicurazioni e fondi di investimento sia italiani che stranieri) che detengono oltre l’80% del suo valore. I piccoli risparmiatori vanno esclusi per non compromettere la loro sicurezza di vita.

Contemporaneamente va aperto un serio e ampio dibattito pubblico sulle strade da intraprendere per garantire la stabilità finanziaria del paese secondo criteri di equità e giustizia.

Almeno cinque proposte ci sembrano irrinunciabili:

  • riforma fiscale basata su criteri di tassazione marcatamente progressiva;

  • cancellazione dei privilegi fiscali e seria lotta a ogni forma di evasione fiscale;

  • eliminazione degli sprechi e dei privilegi di tutte le caste: politici, alti funzionari, dirigenti di società;

  • riduzione delle spese militari alle sole esigenze di difesa del paese e ritiro da tutte le missioni neocoloniali;

  • abbandono delle grandi opere faraoniche orientando gli investimenti al risanamento dei territori, al potenziamento delle infrastrutture e dell’economia locali, al miglioramento dei servizi sociali col coinvolgimento delle comunità.

Attorno a queste poche, ma concrete rivendicazioni, vogliamo raccogliere l’adesione di chi non si arrende, nella speranza che l’onda cresca e si consolidi un movimento di persone e associazioni che organizzi la resistenza.

Primi firmatari:

Francuccio Gesualdi , Aldo Zanchetta, Alex Zanotelli, Bruno Amoroso, Antonio Moscato, Alberto Zoratti, Claudia Navoni, Rodrigo A.Rivas, Giorgio Riolo, Roberto Bugliani, Luigi Piccioni, Michele Boato, Carlo Contestabile Ciaccio, Roberto Fondi, Roberto Mancini, Gianni Novelli, Achille Rossi, Paolo Cacciari, Maurizio Fratta, Fabio Lucchesi, Lorenzo Guadagnucci, Nadia Ranieri, Paola Mazzone, Enrico Peyretti, Gaia Capogna, Francesco Amendola, Uberto Sapienza, Manuela Moschi, Mauro Casini, Roberto Viani, Michela Caniparoli, Franco Fantozzi, Franco Nolli

Poco bene, niente essere

Un estratto dal sempre attuale “L’altra via” di Francesco Gesualdi del Centro  Nuovo Modello di sviluppo, con qualche leggera limatura.

Benessere (Poco bene, niente essere)

Al punto in cui siamo, la decrescita, la riduzione, la moderazione, l’austerità, la sobrietà, o comunque vogliamo chiamarla,  non è più un optional; è una strada obbligata per salvare questo pianeta e questa umanità. Ma nel regno della crescita, la riduzione è una bestemmia, un’eresia che scandalizza e mette in fuga. Un incubo che apre il sipario su scenari tenebrosi dei tempi in cui si moriva per tetano, in cui ci si ammazzava di fatica per fare il bucato, in cui ci si illuminava solo con la candela, in cui si moriva di freddo. Ma sobrietà non va confusa con miseria, come consumismo non va confuso con benessere.

Forse è proprio dal linguaggio che dobbiamo ripartire prima ancora che per mettere ordine nelle parole, per fare chiarezza sui concetti. Quanto meno per sbarazzarsi dei luoghi comuni.

Ci sono parole cui diamo un valore positivo, altre cui diamo un valore negativo, non per ragionamento, ma per associazione di idee…… Generalmente il consumismo è vissuto come concetto positivo, è associato all’idea di vita più comoda, più soddisfacente, più felice. Ma è proprio così? Negli anni Settanta vennero condotte indagini per appurare se la ricchezza rende davvero felici. Fu la caduta di un mito, tutte le ricerche misero in evidenza che solo fino a 10-15.000 dollari annui, l’aumento di reddito si accompagna ad una maggiore felicità, dopo di che si crea una separazione: la linea della ricchezza sale, ma quella della felicità rimane piatta[1]. In Inghilterra, il numerodi persone che si dichiarano molto soddisfatte è passato dal 52%, nel 1957, al 36% del 2008[2].

Vari studiosi hanno cercato una spiegazione a quello che è stato definito il paradosso della felicità partendo da angolazioni diverse. Un gruppo si è concentrato sui desideri, su quei bisogni, cioè, che si sviluppano più per stimolo e condizionamento esterno che per bisogno innato: scelte dettate dalla moda, dal culto della bellezza, dalla grandiosità, dall’invidia. Tibor Scitovsky, un economista americano, ha spiegato che il piacere legato a queste forme di consumo è fugace, dura il momento della novità, poi subentra l’adattamento e quindi la noia[3].

Considerato che la pubblicità ci bombarda dalla mattina alla sera con proposte di consumo che fanno leva sul piacere fugace, alla fine non è la felicità che prevale, ma la noia. Per assurdo, più si compra, più ci circondiamo di cose che ci annoiano. Così la crescita lavora per l’infelicità.

Il fenomeno dell’adattamento è un meccanismo conosciuto col termine di assuefazione, per provare nuovo piacere si punta su nuovi prodotti, spesso più costosi. Trionfo del mercato, che per vendere ha bisogno di consumatori perennemente insoddisfatti, morte della persona che inseguendo una lepre sempre pronta allo scatto si infila in un’altra trappola che conduce all’infelicità per una via ancora più grave.. Il particolare non sfugge a noi che per vincere la sfida del superconsumo accettiamo di sacrificare gran parte del nostro tempo al lavoro. Il tempo: ecco un aspetto che non consideriamo mai. Nel 2007 Bilanci di giustizia, un movimento che promuove il consumo responsabile, ha calcolato il tempo che dobbiamo lavorare per acquistare alcuni prodotti. Considerando una retribuzione netta di 10 euro all’ora, dobbiamo lavorare 18 ore (più di due giornate) per un cellulare del valore di 180 euro, 40 ore per un televisore al plasma del valore di 400 euro, addirittura 1.500 ore (sei mesi) per acquistare un auto di media cilindrata. Parlando di auto, l’acquisto è solo l’inizio. Per viaggiarci serve l’assicurazione, tasse di circolazione e naturalmente il carburante. Secondo uno studio condotto nel 2006 dalla Fondazione Caracciolo, mediamente l’auto assorbe 4.445 euro all’anno[4], 440 ore di lavoro. Se ci aggiungiamo il tempo passato nel traffico, quello che serve per cercare un parcheggio e per la manutenzione, l’automobile assorbe ogni anno un migliaio di ore della nostra vita. Se facciamo lo stesso calcolo per tutti gli altri beni ci accorgiamo che viviamo per consumare. Teniamo a mente che di media ogni casa dispone di 10.000 oggetti, contro i 236 che erano in uso presso gli indiani Navajos[5].

Per ognuno di essi dobbiamo lavorare, recarci al supermercato, sceglierlo, fare la coda alla cassa.

Una volta a casa, dobbiamo pulirli, spolverarli, sistemarli. Se consideriamo tutto, il superconsumo è un lavoro forzato che ci succhia la vita.

Abbiamo viaggiato nell’equivoco che la felicità dipende dalla ricchezza, abbiamo sacrificato tutto il nostro tempo sul suo altare, non c’è più tempo per noi, per il rapporto di coppia, per la cura dei figli per la vita sociale. Bisogna andare di fretta, cresce la solitudine dei bambini che si gettano nelle braccia della televisione. Secondo un’indagine condotta in Italia nel 2007, I bambini trascorrono giornalmente un’ora e trentasei minuti al televisiore, un’ora e cinque minuti al computer, cinquantacinque minuti in videogiochi[6].

Ecco dunque la seconda radice dell’infelicità nella società della crescita: relazioni umane insufficienti ti, fugaci, transitorie. Società liquida, così la definisce Zygmunt Bauman. Una società dai legami fragili, instabili, frettolosi in continua composizione e scomposizione proprio come le molecole d’acqua. Rapporti interpersonali consumati come gelati, una leccata e via. Esplode la comunicazione via cellulare, i messaggi sms inondano l’etere nell’illusione che la quantità possa compensare la qua-

lità. Ma in ambito umano la logica dell’usa e getta non funziona il malessere affiora, quando sui giornali comparve la notizia, nel giugno 2008, che una ragazzina di dodici anni si rinchiudeva in bagno e col cellulare si fotografava nuda, in pose sexy, per vendere le immagini ai compagni al fine di raggranellare soldi per comprarsi abiti firmati, Paolo Crepet fu categorico: “È solo l’ennesimo caso di solitudine e di crisi vissuti dagli adolescenti. Non possiamo dare la colpa ai dodicenni se danno più valore alla moda che alla loro dignità: è il mondo degli adulti a essere andato in corto circuito”.


[1] Il primo economista ad avere studiato l’andamento fra reddito e felicità è stato Richard Easterlin nel 1974, tant’è che il paradosso della felicità è anche detto paradosso di Easterlin. In seguito il fenomeno è stato studiato anche da Robert Frank e Daniel Kahneman.

[2] World Watch Institute, State of the world, 2008

[3] Tibor Scitovsky, Joyless economy, 1976 (In italiano: L’economia senza gioia, ed. Città Nuova 2007)

[4] Fondazione Caracciolo, Mia carissima auto, 2006

[5] Wuppertal Institute, Futuro sostenibile, 1997

[6] Indagine Sgw per l’associazione Moige, 2007