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Poco bene, niente essere

Un estratto dal sempre attuale “L’altra via” di Francesco Gesualdi del Centro  Nuovo Modello di sviluppo, con qualche leggera limatura.

Benessere (Poco bene, niente essere)

Al punto in cui siamo, la decrescita, la riduzione, la moderazione, l’austerità, la sobrietà, o comunque vogliamo chiamarla,  non è più un optional; è una strada obbligata per salvare questo pianeta e questa umanità. Ma nel regno della crescita, la riduzione è una bestemmia, un’eresia che scandalizza e mette in fuga. Un incubo che apre il sipario su scenari tenebrosi dei tempi in cui si moriva per tetano, in cui ci si ammazzava di fatica per fare il bucato, in cui ci si illuminava solo con la candela, in cui si moriva di freddo. Ma sobrietà non va confusa con miseria, come consumismo non va confuso con benessere.

Forse è proprio dal linguaggio che dobbiamo ripartire prima ancora che per mettere ordine nelle parole, per fare chiarezza sui concetti. Quanto meno per sbarazzarsi dei luoghi comuni.

Ci sono parole cui diamo un valore positivo, altre cui diamo un valore negativo, non per ragionamento, ma per associazione di idee…… Generalmente il consumismo è vissuto come concetto positivo, è associato all’idea di vita più comoda, più soddisfacente, più felice. Ma è proprio così? Negli anni Settanta vennero condotte indagini per appurare se la ricchezza rende davvero felici. Fu la caduta di un mito, tutte le ricerche misero in evidenza che solo fino a 10-15.000 dollari annui, l’aumento di reddito si accompagna ad una maggiore felicità, dopo di che si crea una separazione: la linea della ricchezza sale, ma quella della felicità rimane piatta[1]. In Inghilterra, il numerodi persone che si dichiarano molto soddisfatte è passato dal 52%, nel 1957, al 36% del 2008[2].

Vari studiosi hanno cercato una spiegazione a quello che è stato definito il paradosso della felicità partendo da angolazioni diverse. Un gruppo si è concentrato sui desideri, su quei bisogni, cioè, che si sviluppano più per stimolo e condizionamento esterno che per bisogno innato: scelte dettate dalla moda, dal culto della bellezza, dalla grandiosità, dall’invidia. Tibor Scitovsky, un economista americano, ha spiegato che il piacere legato a queste forme di consumo è fugace, dura il momento della novità, poi subentra l’adattamento e quindi la noia[3].

Considerato che la pubblicità ci bombarda dalla mattina alla sera con proposte di consumo che fanno leva sul piacere fugace, alla fine non è la felicità che prevale, ma la noia. Per assurdo, più si compra, più ci circondiamo di cose che ci annoiano. Così la crescita lavora per l’infelicità.

Il fenomeno dell’adattamento è un meccanismo conosciuto col termine di assuefazione, per provare nuovo piacere si punta su nuovi prodotti, spesso più costosi. Trionfo del mercato, che per vendere ha bisogno di consumatori perennemente insoddisfatti, morte della persona che inseguendo una lepre sempre pronta allo scatto si infila in un’altra trappola che conduce all’infelicità per una via ancora più grave.. Il particolare non sfugge a noi che per vincere la sfida del superconsumo accettiamo di sacrificare gran parte del nostro tempo al lavoro. Il tempo: ecco un aspetto che non consideriamo mai. Nel 2007 Bilanci di giustizia, un movimento che promuove il consumo responsabile, ha calcolato il tempo che dobbiamo lavorare per acquistare alcuni prodotti. Considerando una retribuzione netta di 10 euro all’ora, dobbiamo lavorare 18 ore (più di due giornate) per un cellulare del valore di 180 euro, 40 ore per un televisore al plasma del valore di 400 euro, addirittura 1.500 ore (sei mesi) per acquistare un auto di media cilindrata. Parlando di auto, l’acquisto è solo l’inizio. Per viaggiarci serve l’assicurazione, tasse di circolazione e naturalmente il carburante. Secondo uno studio condotto nel 2006 dalla Fondazione Caracciolo, mediamente l’auto assorbe 4.445 euro all’anno[4], 440 ore di lavoro. Se ci aggiungiamo il tempo passato nel traffico, quello che serve per cercare un parcheggio e per la manutenzione, l’automobile assorbe ogni anno un migliaio di ore della nostra vita. Se facciamo lo stesso calcolo per tutti gli altri beni ci accorgiamo che viviamo per consumare. Teniamo a mente che di media ogni casa dispone di 10.000 oggetti, contro i 236 che erano in uso presso gli indiani Navajos[5].

Per ognuno di essi dobbiamo lavorare, recarci al supermercato, sceglierlo, fare la coda alla cassa.

Una volta a casa, dobbiamo pulirli, spolverarli, sistemarli. Se consideriamo tutto, il superconsumo è un lavoro forzato che ci succhia la vita.

Abbiamo viaggiato nell’equivoco che la felicità dipende dalla ricchezza, abbiamo sacrificato tutto il nostro tempo sul suo altare, non c’è più tempo per noi, per il rapporto di coppia, per la cura dei figli per la vita sociale. Bisogna andare di fretta, cresce la solitudine dei bambini che si gettano nelle braccia della televisione. Secondo un’indagine condotta in Italia nel 2007, I bambini trascorrono giornalmente un’ora e trentasei minuti al televisiore, un’ora e cinque minuti al computer, cinquantacinque minuti in videogiochi[6].

Ecco dunque la seconda radice dell’infelicità nella società della crescita: relazioni umane insufficienti ti, fugaci, transitorie. Società liquida, così la definisce Zygmunt Bauman. Una società dai legami fragili, instabili, frettolosi in continua composizione e scomposizione proprio come le molecole d’acqua. Rapporti interpersonali consumati come gelati, una leccata e via. Esplode la comunicazione via cellulare, i messaggi sms inondano l’etere nell’illusione che la quantità possa compensare la qua-

lità. Ma in ambito umano la logica dell’usa e getta non funziona il malessere affiora, quando sui giornali comparve la notizia, nel giugno 2008, che una ragazzina di dodici anni si rinchiudeva in bagno e col cellulare si fotografava nuda, in pose sexy, per vendere le immagini ai compagni al fine di raggranellare soldi per comprarsi abiti firmati, Paolo Crepet fu categorico: “È solo l’ennesimo caso di solitudine e di crisi vissuti dagli adolescenti. Non possiamo dare la colpa ai dodicenni se danno più valore alla moda che alla loro dignità: è il mondo degli adulti a essere andato in corto circuito”.


[1] Il primo economista ad avere studiato l’andamento fra reddito e felicità è stato Richard Easterlin nel 1974, tant’è che il paradosso della felicità è anche detto paradosso di Easterlin. In seguito il fenomeno è stato studiato anche da Robert Frank e Daniel Kahneman.

[2] World Watch Institute, State of the world, 2008

[3] Tibor Scitovsky, Joyless economy, 1976 (In italiano: L’economia senza gioia, ed. Città Nuova 2007)

[4] Fondazione Caracciolo, Mia carissima auto, 2006

[5] Wuppertal Institute, Futuro sostenibile, 1997

[6] Indagine Sgw per l’associazione Moige, 2007